da L’URLO MUTO DEGLI ANGELI, Flavia Basile Giacomini

Regina Prezioso

Regina tornò indietro verso la sua moto e l’ispettore la fermò: «Non abusare del mio favore, Regina. Scegli da che parte stare, il limbo è dei morti. Non sei più dei nostri e posso dimenticare con facilità che tu lo sia stata. Hai cambiato troppe bandiere. Potrei anche non aiutarti più con i tuoi articoli di cronaca nera, cara la mia giornalista. Le tue amicizie devono restare fuori dai nostri rapporti.»
Regina, quindi, proseguì dandogli una spallata, calzò il casco e poi tornò sui suoi passi. Puntò il dito verso Stefano Casagrande: «Non sono io ad avere bisogno del tuo aiuto, ma tu del mio. Sono passati anni da quando eravamo colleghi, ma non abbastanza perché io dimentichi.» Lo disse forte in modo che tutti sentissero, che i suoi amici alzassero la guardia e che i suoi nemici tremassero.

Da L’urlo muto degli angeli ©2017 -Flavia Basile Giacomini, ed Youcanprint
Materiale protetto da Copyright ©

Coming soon – L’URLO MUTO DEGLI ANGELI

PRESTO IN LIBRERIA E IN TUTTI GLI STORE ONLINE.

«Sono vere le cose che fate qui?»
Fournier trasse un lungo sospiro.
«Quali cose?»
Regina lo guardò senza rispondere, in attesa.
«Lei è credente?»
Ci pensò un istante, prima di rispondergli, «Sì, credo di sì.»
«O sì o no. Non esiste una via di mezzo.»
«Diciamo che voglio mettere la mano nel costato.»
«Quindi non crede, ma vorrebbe credere. Mi sembra una posizione onesta.»
«È vero quello che si dice? Che lei sia uno degli esorcisti più potenti del Vaticano?»
«Chi lo dice?»
«Penso che lo direbbero tutti quelli che erano qui oggi.»
«Tutti, tranne lei.»

tratto da L’URLO MUTO DEGLI ANGELI – Flavia Basile Giacomini
Materiale depositato legalmente International Copyright © 2017

Elisa, da Angelo Di Strada

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Elisa danzava con tutta l’anima.

Elisa danzava esponendo il dolore con cui viveva e rivelando la gioia che non riusciva a trovare altrove.

Era brava. Lo era davvero. E sapeva trasmettere emozioni, faceva battere i cuori ogni volta che saliva sul palco.

Gli occhi del pubblico erano sempre tutti per lei, anche quando era solo una piccola parte dell’intero. Lei ballava e brillava. Diveniva essenza pura.

Quella sera si chiuse nella sala vuota e fredda. Era a sua disposizione quando non era occupata dalle lezioni dei corsi. Era la ballerina più promettente della compagnia, era l’unica cui era concesso anche di improvvisare in scena quando aveva degli assoli, così che alcune delle riprese video divennero dei piccoli e rari tesori coreografici.

Inserì il cd nell’impianto hi-fi e scelse la traccia: Comptine D’un Autre été L’après-midi di Yann Tiersen . Tolti i calzettoni e tirate al ginocchio le coulisse dei pantaloni della tuta, rimase immobile davanti allo specchio, perdendosi nei suoi occhi rossi di pianto e duri di determinazione.

Avrebbe lottato per il suo sogno, avrebbe difeso la sua verità. La verità era che Elisa non sarebbe mai diventata un avvocato. La verità era che Elisa avrebbe danzato per sempre. Fosse costato quel che fosse costato. Anche il disprezzo dei suoi. Elisa non aveva paura del disprezzo. Elisa temeva invece il non poter essere ciò che realmente era.

Si lasciò andare tra le note. Respiro e musica, occhi e sudore, anima e corpo, braccia e gambe, muscoli che si tendono e si rilassano. Elisa volava. Elisa soffriva. Elisa esisteva. E trasformava il dolore in gioia ed estasi.

Aveva messo la colonna sonora del film “Il favoloso mondo di Amelie”. Era uno dei suoi preferiti, ma non si sentiva come Amelie. Invece Elisa e Amelie avevano molto più in comune di quanto lei avesse mai potuto o voluto vedere. Elisa, però, non avrebbe mai potuto scoprire la bellezza del fare del bene anche a se stessa, così intenta a combattere per la sua verità e di chi faceva parte della sua vita.

Se solo si fosse fermata a scrutare ancora più profondamente dentro i suoi rarissimi e severi occhi blu notte, avrebbe avuto la possibilità di poter vedere che la felicità è ciò a cui siamo destinati. Alla fine.

Chi la guardava con attenzione da mesi era Alessandro, il quale riusciva a scorgerla anche dentro i suoi larghi e anonimi vestiti. Alessandro la osservava con discrezione. La conosceva attraverso l’amico Angelo, di cui Elisa non era altro che uno specchio che riflette simmetricamente. Ciò che in Angelo era destra diveniva sinistra in Elisa, come ciò che in Angelo era razionalità diveniva in Elisa istinto. Angelo era calcolo e scienza, Elisa ispirazione e poesia. Angelo coscienza e ubbidienza, Elisa passionalità e ribellione. E Alessandro scorgeva in entrambi un bellissimo unico piano divino. Angelo era l’amico che non aveva mai avuto, Elisa la donna di cui era innamorato. Anche se lei era ancora di Luca, o almeno pensava di esserlo.

Rimase appoggiato allo stipite della porta, perso a seguire quel corpo perfetto che diveniva aria e musica. Accarezzava con gli occhi quei muscoli tirati. Elisa aveva avuto un guizzo e un bagliore rapido accorgendosi della sua presenza dal riflesso dello specchio. Aveva continuato la sequenza, chiudendo gli occhi per non lasciarsi distrarre fino alla fine del brano. Era sudata e stanca, ma nuovamente se stessa, senza il turbamento che l’aveva condotta in sala quella sera.

Mentre spegneva la musica, si rivolse con un mezzo sorriso ad Alessandro: – Che ci fai tu qui?

– Mi ha detto Angelo dove trovarti.

– E allora?

– Stai bene?

– Meglio. Ho deluso i miei genitori. Ai loro occhi sarò una fallita sognatrice. Ma sì, sto meglio. Sono libera, finalmente. Mi guardo allo specchio e mi vedo per quello che sono… almeno non devo più nascondermi, come fa Angelo.

Alessandro era incantato dalla sua bellezza. Era molto più donna di quanto lei stessa avesse mai creduto. Pur essendosi frequentati per mesi nella stessa compagnia e nella stessa casa, che ormai Alessandro frequentava assiduamente, in realtà non avevano mai parlato tra loro delle loro cose personali. Si conoscevano bene, però. Attraverso Angelo.

– Balli divinamente. Tuo fratello me l’aveva detto e ho visto qualche foto in casa tua. Ma non avrei mai immaginato…

Elisa lo guardava e lo ascoltava come se fosse stata la prima volta che lo vedesse in vita sua. Forse perché per la prima volta Alessandro si era mostrato interessato a lei. O semplicemente perché con un peso in meno sulla coscienza riusciva anche ad accorgersi di quanto la circondava, senza rimanere fredda e chiusa nei suoi problemi e tormenti interiori.

– E che cosa avresti immaginato?

Lo sfidò Elisa, giocando a provocarlo.

– Non lo so, semplicemente non t’immaginavo. È come vederti per la prima volta

Aveva ragione lui. Elisa lo sapeva.

– Vado a cambiarmi. Che fai? Mi aspetti o vai via, dopo aver immaginato?

Alessandro sorrise con gusto alla sua impertinenza.

ANGELO DI STRADA©, Flavia Basile Giacomini

International Copyright©2013

Regolarmente registrato e depositato dic.2013

 

 

 

da “Angelo Di Strada”

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Era impreparato ad affrontare quella verità.
– Dimmi perché? – Gli aveva domandato con dolorosa severità, senza salutarlo, senza preamboli, senza entusiasmo.
Fabio aveva occhi profondi, capaci di inseguire la sua anima ovunque essa tentasse di nascondersi.
Angelo non aveva risposte giuste per lui, che almeno consolassero il suo cuore offeso dall’abbandono.
– Perché non sono perfetto. E tu sei la mia imperfezione. Non posso accettarlo. Ho fatto del male a tutti quelli a cui tenevo e non posso perdonarmelo.
Lo disse sofferente e incapace di guardarlo negli occhi.
Lo stava tradendo. Di nuovo. Stava tradendo se stesso. Di nuovo.

Angelo Di Strada
Flavia Basile Giacomini

2 ed.- marzo 2014- Youcanprint

ANGELO DI STRADA – FLAVIA BASILE GIACOMINI

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Devo camminare, non posso fermarmi. Un passo dopo l’altro per capire che niente è più incerto di quello successivo, in cui il piede potrebbe vacillare o inciampare, e nulla è più irrecuperabile di quello lasciato indietro. Magari potrò ripercorrere la stessa strada decine di volte ma ognuna sarà sempre diversa dall’altra.
È il camminare la vera essenza di ogni passo, come la vita lo è di ogni attimo.

International Copyright © registered – tutti i diritti riservati.
versione cartacea ISBN 9788891052612
versione digitale ISBN 9788891052971

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27 Gennaio 1945.

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È uomo chi uccide, è uomo chi fa o subisce ingiustizia; non è uomo chi, perso ogni ritegno, divide il letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane è, pur senza sua colpa, più lontano dal modello dell’uomo pensante, che il più rozzo pigmeo e il sadico più atroce.
Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo.

Primo Levi
Se questo è un uomo

Per non dimenticare mai l’atrocità della storia umana.
Flavia.

Un capitolo da “Angelo di strada” (Dicembre. Il vuoto.)

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DICEMBRE. IL VUOTO.

Camminare in questi giorni mi fa sentire ancora più invisibile.
I marciapiedi si sono vestiti con improbabili guide rosse, come se ogni strada di Roma fosse la brutta copia della quinta strada di New York, e le luci intermittenti brillano sospese tra un palazzo e l’altro.
Questa non è l’America ma soltanto una sua imitazione, peraltro mal riuscita. Mi chiedo quand’è che abbiamo perduto la nostra cultura identitaria per aspirare a cose che non ci sono mai appartenute. Guarda Halloween. Io non ricordo di averne mai sentito parlare da bambino, in quei giorni c’era il ponte e si andava al Verano per togliere la polvere di un anno intero dalle lapidi dentro alla cappella. Poi sono arrivati i film anni Novanta che ci mostravano quanto potesse essere divertente trasformare la morte di quei giorni in un’occasione per esorcizzarla. Ce la siamo bevuta, anche McDonald’s e i Marshmallow che arrostivamo tristemente sul gas, come se ci trovassimo in campeggio a Yellowstone. Siamo soltanto diventati più tristi e più grassi e dell’America non abbiamo proprio niente. Nulla della sua grandezza, della sua apertura all’affermazione dei diritti civili, della sua politica ed economia mondiali, e nemmeno del senso di appartenenza dei suoi cittadini.
Il nostro Natale era diverso dal loro, e forse anche migliore, abbiamo permesso che ce lo prendessero e lo conformassero alla loro cultura esibizionista del grande e su larga scala, rifilandoci sotto l’albero una serie infinita di pacchi uguali per tutti e in ogni casa. Regali su larga scala, desideri omologati, tutti identici e tutti allo stesso momento. Il loro Babbo Natale non porta mai il carbone e neppure minaccia di farlo, è sempre rubicondo e sorridente con una barba bella e curata, soprattutto vera. Il nostro ha iniziato a farsi vedere più spesso in giro, vestito di casacche cinesi sintetiche e con barba in lana di vetro che manco il più scemo dei ragazzini al di sopra dei tre anni ci cascherebbe.
Le persone si affannano a riempirsi le mani di pacchi pieni di regali inutili, spesso inutilizzabili e impersonali, presenti senza sentimento per l’annuale giostra natalizia.
A casa nostra il Natale era il tempo degli eventi sociali, delle cene importanti, a cui Elisa ed io partecipavamo di malumore, ingessati nei nostri vestiti eleganti e con sorrisi di circostanza che dessero lustro all’immagine della famiglia Di Strada.
Quando la nostra nonna paterna era ancora in vita, però, le cose erano diverse. Il Natale era davvero Natale e il suo profumo era quello dei tortellini in brodo e del pandoro lasciato a scaldarsi sopra il termosifone, del chiodo di garofano e delle bucce di mandarino.
Era il tempo in cui aspettavo con ansia l’arrivo di Babbo Natale, quello vero, quello che si nega alla vista dei bambini perché il loro sguardo lo farebbe irrimediabilmente scomparire. I Babbi di Piazza Navona erano risaputi impostori. A ogni romano tra i tre e i dieci anni circa veniva rifilata questa versione, quando si sedeva sulle ginocchia di un uomo troppo magro o troppo moro o che puzzava vistosamente di vino che di certo non poteva essere il vero, il magico, l’assoluto Santa Claus in persona.
Mandavo la letterina sempre in grande anticipo, con almeno tre post scriptum di richieste per Elisa che era sempre troppo pigra per scriverne una tutta sua.
Il Natale dei nostri otto anni avevo chiesto un telescopio a colui che era risaputo viaggiasse tra le stelle: avrebbe dovuto portarmi il più potente e più scientifico che ci fosse mai stato sulla faccia della terra. Soltanto lui avrebbe potuto farlo, a nessun umano sarebbe stato possibile acquistare un simile aggeggio. L’avevo visto su una pubblicità in una rivista e avevo capito che era lì come suggerimento.
Elisa mi aveva chiamato, come faceva lei, sottovoce, quando stava per combinarla grossa.
«Angelo! Psss… Angelo!»
Era nascosta dietro la porta della stanza dei miei.
«Che c’è?»
«Tu ci credi davvero a Babbo Natale?»
«Che domande fai? Certo, altrimenti chi mai potrebbe regalarmi un telescopio astronomico con riflettore motorizzato? Ti rendi conto Elisa!»
Mi aveva guardato con il suo sorriso birichino e mi aveva afferrato per il maglione trascinandomi dentro e chiudendo la porta.
«Sei pronto?»
L’avevo guardata senza capire e lei sghignazzando soddisfatta aveva aperto l’armadio di mio padre, scostando le giacche, e mostrandomi la poco poetica e cruda realtà.
Ero scoppiato a piangere disperato di fronte a quel sogno profanato e infranto e quando avevo scartato il telescopio, che era esattamente quello che avevo chiesto, in realtà avevo capito che il vero desiderio era altrove e non sarebbe più tornato.
Elisa era così: voleva la verità sempre e comunque. Combatteva per affermarla. Anche quando faceva male ed era amara. Diceva che conoscere e accettare la verità rende liberi.
Esattamente quello che non ho mai fatto io, tentando di soddisfare le attese degli altri su di me ed evitando di discostare le giacche appese nell’armadio chiuso del mio cuore per scorgerne la verità in esso contenuta.
Mi siedo lungo la strada, tra un negozio e l’altro, e accordo la chitarra.
Suonando posso racimolare quanto mi occorre per sopravvivere. Non è elemosina. Lavoro. Offro musica in cambio di un’offerta. Come i burattinai del Gianicolo.
Continuo a ripeterlo per convincere me stesso.
Mi domando se mio padre mi guarderebbe con gli stessi occhi di disprezzo come quando mi vide uscire da casa di Fabio.
Forse questo gli farebbe meno male e sarebbe per lui più accettabile, considerandolo qualcosa di recuperabile.
Quello che sono però non ha via di ritorno e mi rende invisibile ai suoi occhi.
Meglio pezzente che frocio. Mi direbbe con disprezzo.
Elisa sbatterebbe la sua forchetta nel piatto e si farebbe fumare le orecchie e poi verrebbe a sedersi qui accanto a me con un tamburello a tenere il ritmo della mia chitarra.
Elisa non c’è più. Neppure io.
Non guardo mai la gente che si ferma a mettere le monete dentro il mio berretto. Mi deconcentra. In verità mi vergogno, non riesco ad accettare quello che sto facendo, ma devo farlo per forza. Fabien non c’è più e la sua chitarra è stata la sua ultima lezione per me. Allora non guardo.
Mi accorgo che ho sempre preferito non guardare ciò che mi fa male. L’amore di Fabio, il disprezzo di mio padre, la morte di Elisa: ho preferito non guardare.
La mano di una ragazza si allunga a lasciare due euro e mi dice con voce gentile:
«Suoni davvero molto bene!»
Riconosco la sua voce e mi si ferma il respiro. Alzo gli occhi mentre sorridendomi se ne sta andando. È Giada.
Rallenta un attimo il passo trasalendo, c’incontriamo con lo sguardo, e nella manciata di pochi secondi la sua espressione passa dall’interrogativo domandarsi dove mai può avermi visto, al riconoscermi dietro mesi di strada e privazioni, con capelli e barba lunghi, chili di fame addosso, e occhi spenti.
Trasale, resta senza fiato con il viso sgomento, e istintivamente si volta dall’altra parte a chiamare il ragazzo che è con lei, di spalle, Luca. L’ho riconosciuto. La sua mossa mi dà il tempo di alzarmi e sparire dietro l’angolo.
Li sento chiamarmi concitati in mezzo alla folla incuriosita.
«Angelo! Angelo! Dove sei?»
Svuoto con rapidità il berretto dai miseri guadagni e mi metto in tasca le monete, m’infilo velocemente lo zaino sulle spalle e la chitarra a tracolla e inizio a correre nella direzione opposta, allontanandomi mentre le prime gocce di pioggia cominciano a bagnarmi il viso confondendosi con il pianto.
Decido di fermarmi solo quando sono completamente fradicio e le gambe mi tremano per lo sforzo. Entro in un bar e mi prendo un cappuccino caldo. Nel bagno cerco di asciugarmi alla meno peggio con l’asciugatore ad aria calda. Non ho vestiti di ricambio e il freddo e l’umido mi penetrano le ossa.
Alla stazione Termini alcuni volontari stanno passando per offrire delle coperte a quelli come me. Mi avvicino con lo sguardo basso e ne prendo una. Lo considero il mio regalo di Natale.
Mi trovo un posto riparato, lontano da sguardi indiscreti, prendo la foto e la guardo.
Mi sento pervadere da una profonda sensazione di vuoto.
Non mi sento libero. Mi sento svuotato.
Silenzio, freddo, vuoto, solitudine.
Credevo che allontanandomi dalla mia vita avrei cancellato tutto, invece tutto è rimasto lì, uguale a se stesso, come le onde del mare e il loro infinito ripetersi sulla riva, un universo di frattali che non intendono rompere alcuna regola. Lunghe o corte, calme o agitate, ma sempre se stesse. Onde.
Si fa strada la terribile presa di coscienza che al di là da questo mondo vuoto che ho voluto costruirmi lontano da me stesso e dal mio dolore c’è ancora l’altro mondo, quello da cui sono fuggito, in cui ero circondato da affetti e presenze, ognuno ovviamente con le sue aspettative, ma che rendevano la mia anima piena. Nonostante tutto.
La voce e gli occhi di Giada hanno tuffato il mio cuore, per pochi sfuggevoli secondi, nel calore di chi mi vuole bene. Un calore che ho voluto rifiutare per questo libero gelo.
Ho avuto paura e sono scappato di nuovo. Ho avuto paura di me stesso e del mio smarrimento.
Ora, oltre che da questa coperta, sono avvolto anche dal vuoto più assoluto.

Angelo di strada
Flavia Basile Giacomini

International Copyright © registered – tutti i diritti riservati.
versione cartacea ISBN 9788891052612
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Prologo – “Su ali d’aquila”© – Flavia Basile Giacomini

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La pioggia battente sul vetro e i tergicristalli che spazzano via le gocce al ritmo del cuore non bastano a cancellare i pensieri annidati nei solchi più nascosti dell’anima.
Insieme da due vite, una prima e l’altra dopo.
La famiglia perfetta, l’apparenza meravigliosa che riluce in ogni sua sfaccettatura.
Chi direbbe, a questo semaforo rosso, quali cose oscene e perverse legano questa donna al suo uomo, al padre dei suoi figli, insieme compagno e persecutore, vita e morte?
Il semaforo diventa verde, le luci si allungano nella notte in un gioco ottico di danza tra la pioggia.
Premo l’acceleratore e parto, in mezzo al traffico, con la radio che suona Marvin Gaye.
Sorrido a me stessa per essere riuscita a sopravvivere, a resistere, a vincere una battaglia di cui non riesco ancora a percepire le linee, né i confini, né tantomeno la demarcazione tra ciò che è bene e ciò che è male.
Perché il male è ovunque, permea l’aria, infrange ogni ostacolo, s’insinua in ogni anfratto del cervello, del cuore, del corpo e dell’anima.
Il mio iPhone s’illumina e suona Crazy degli Aerosmith, riportandomi all’attenzione che meriterebbe la mia guida. È Gregory.
«Ciao Principessa! Dove sei?».
Il vivavoce diffonde nell’abitacolo la sua voce calda, cortese, sempre così ferma e profonda, da farmi vibrare ancora oggi ogni nervo, da farmi trattenere per un attimo impercettibile il respiro.
«Sulla via del ritorno».
«Ho quasi finito anch’io. Ti raggiungo a casa!»
Sorrido.
Abbiamo viaggiato a lungo per tornare a vivere, abbiamo dovuto camminare a piedi nudi all’inferno, vedere e sentire cose destinate a pochi, per affermare la verità del nostro amore.
L’uomo che amo da sempre, dalla vita prima e in questa vita dopo. L’uomo che mi ha fatto apprezzare il valore di un paio di scarpe ai piedi tanto quanto il valore della vita stessa.

Su ali d’aquila

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